Cass. pen. Sez. IV, 4 aprile 2014, n. 15423
Gli imputati erano stati tratti a giudizio per rispondere, nelle rispettive qualità di primario e medico del reparto, di infermiera di turno e di operatori assistenziali, del reato di omicidio colposo in relazione al decesso, per arresto cardio circolatorio da soffocamento alimentare, di un degente presso un nosocomio.
Il deceduto era ricoverato perché affetto da “ritardo mentale grave con modificazione organica della personalità”, con facoltà di girare liberamente per la struttura. Il corpo veniva ritrovato da un educatore con un tozzo di pane in bocca. Dalla cartella clinica del paziente emergevano precedenti episodi di asfissia causati dalla ingestione di cibo.
La cartella clinica riportava la seguente indicazione: “il paziente necessita di sorveglianza continua per la voracità nei confronti del cibo che cerca di ingoiare senza masticare e che lo mette a rischio di soffocamento come è già accaduto in passato”.
Il Giudice di primo grado perveniva alla pronuncia di condanna rilevando come il primario e il medico addetto al reparto, titolari di posizione di garanzia nei confronti del paziente, pur consapevoli dei rischi da soffocamento cui il paziente era esposto non avevano messo in atto particolari meccanismi di sorveglianza in suo favore: in particolare, il primario cui incombeva l’indicazione delle regole cautelari da osservare onde consentire ai collaboratori di positivizzare le istruzioni ricevute, non aveva vigilato sull’osservanza della disposizione data. Insomma, se il paziente fosse stato adeguatamente sorvegliato, non sarebbe morto per l’ingestione di un pezzo di pane.
Di contro, la Corte d’Appello, pur ritenendo la posizione di garanzia dei medici e la prevedibilità dell’evento, ha escluso la penale responsabilità dei sanitari affermando che la previsione di una sorveglianza continua non poteva che essere limitata ai momenti della vita quotidiana in cui si verificava l’assunzione di cibo, non essendovi situazioni terapeutiche che giustificassero l’adozione di ulteriori presidi, implicanti il divieto di passeggiare liberamente per i viali o di altre forme di più serrato controllo ovvero di contenimento che sarebbero risultate lesive della dignità del paziente.
La Corte di Cassazione rigetta i ricorsi avverso detta sentenza, ribadendo che eventuali più incisive forme di contenzione o limitazione della libertà non sarebbero state giustificate dalla complessiva situazione clinica del paziente: “nel tempo la situazione clinica del B., che diveniva più tranquillo allorché lasciava il reparto per passeggiare nei viali della struttura, si era nel tempo stabilizzata al punto che lo stesso usufruiva di licenze che trascorreva in famiglia … pur ipotizzando una sorveglianza del paziente estesa all’intero arco della giornata, non potrebbe sostenersi con sufficiente grado di certezza, che ciò avesse scongiurato il rischio che il paziente riuscisse a sottrarre furtivamente un pezzo di pane ovvero a raccattarlo per terra, ingoiandolo voracemente e procurandosi la morte per soffocamento”.