Cass. pen., Sez. IV, 27 agosto 2014, n. 36229
Il Tribunale dichiarava la penale responsabilità degli imputati M. e P. per il reato di lesioni colpose in danno di D.S., il primo nella qualità di ginecologo chirurgo operatore e la seconda di ferrista, entrambi facenti parte della equipe chirurgica che aveva sottoposto la D.S. ad intervento di taglio cesareo, durante il quale veniva lasciata nell’addome della paziente una garza laparotomica, che, infettatasi, causava alla donna la formazione di un ascesso, con conseguente cancrena, risolto solo grazie a nuovo intervento chirurgico.
Il primo giudice ricostruiva la vicenda sulla base di quanto riferito dai testi escussi, fra cui la stessa persona offesa, che esponeva dei disturbi persistenti e dei dolori accusati fin dai primi giorni successivi al parto, poi nel tempo aumentati, interpretati dal dott. M., suo ginecologo di fiducia, quali sintomi di una depressione post partum, e della documentazione medica acquisita, ritenendo provata la circostanza della “dimenticanza” della garza nell’addome della paziente nel corso dell’intervento di taglio cesareo. Dalla presenza del corpo estraneo erano scaturite gravi conseguenze, risolte solo a seguito di nuovo intervento, deciso dopo che la donna veniva sottoposta da altro specialista, cui, infine, si era rivolta, ad esame ecografico, che evidenziava la presenza di una massa sospetta nell’area ileale, e durante il quale, a causa dell’ascesso e della conseguente cancrena, si era dovuto procedere anche ad una resezione intestinale, oltre che al drenaggio della cavità residua.
Il Tribunale, dunque, riteneva provata e certa la responsabilità del dott. M. che, con condotta gravemente negligente, non si avvedeva della presenza all’interno dell’addome, al momento della conclusione dell’intervento, della garza, peraltro neppure di dimensioni ridotte (40×40) e non segnalata, come è buona norma, non essendo dotata di opportuno filo radio opaco, da un ferro chirurgico all’uopo agganciato ed, inoltre, pur avendone avuto più volte occasione, non approfondiva adeguatamente, anche a mezzo di esami strumentali, i riferiti sintomi persistenti.
A conferma della consapevolezza del grave errore commesso, il primo giudice valorizzava anche la presenza, sul diario della descrizione dell’intervento, della dizione “chiesto e riferito uguale all’inizio il conteggio del materiale chirurgico impiegato”, eseguita con grafia certamente riconducibile alla mano dell’imputato, ma altrettanto certamente, secondo le risultanze della consulenza grafica svolta, aggiunta in un momento successivo alla compilazione del diario medesimo.
Quanto alla P., il Tribunale riteneva provata la penale responsabilità in base alla qualifica di ferrista, cui spettava il compito specifico di controllare il materiale chirurgico impiegato e restituito e, in particolare, il compito, eseguito il computo delle garze prima dell’inizio dell’intervento, di effettuare il conteggio finale prima di dare il via alla chiusura della parete addominale.
La Corte d’Appello confermava la sentenza di condanna, evocando la giurisprudenza secondo cui, nel caso di abbandono nell’addome del paziente di un corpo estraneo, si configura la responsabilità dell’intera equipe medica (Cass. pen., Sez. IV, n. 15282/2008; Cass. pen., Sez. IV, n. 18568/2005).
La Corte di Cassazione riteneva infine i ricorsi degli imputati manifestamente infondati.
Per sgomberare il campo dagli equivoci, la Suprema Corte osservava che, se la conta è stata fatta, è certo che essa è stata eseguita in maniera erronea e non esime da responsabilità coloro che erano deputati a farla e/o a controllarne l’esattezza; se la conta non è stata fatta, a maggior ragione l’affermazione di responsabilità è corretta.
Per ciò che riguarda la posizione del chirurgo, l’obbligo di controllo non può ritenersi soddisfatto con il semplice affidamento ad un’infermiera, senza interessarsi al suo esito. La verifica, infatti, implica un controllo attivo che va compiuto interpellando personalmente il personale incaricato e chiedendo i dati numerici dei diversi conteggi; cosa che pacificamente non è stata fatta.
Occorre poi considerare che i giudici evidenziavano un distinto profilo di colpa, tutto proprio del M. Si è ovvero posto in luce che le pezze laparotomiche sono in numero limitato, sicché il chirurgo può e deve tenere il conto di quante ne usa. Il controllo finale costituisce solo un adempimento aggiuntivo che non esonera il chirurgo stesso dall’adottare per proprio conto le cautele e l’attenzione necessarie.
Per ciò che riguarda la posizione della P., si evidenziava che costei, nel ruolo di strumentista, aveva specifiche incombenze anche per ciò che attiene al controllo in questione, sia in ordine al conteggio delle garze utilizzate, sia per ciò che riguarda il finale controllo di corrispondenza fra le garze utilizzate e quelle restituite. Se ne deduceva che l’imputata è venuta meno all’obbligo di concorrere personalmente alla procedura in questione. Ciò che è mancato è stata una procedura di verifica, che non si traduce nella semplice comunicazione di un numero ma implica un controllo che invece è mancato, o che è stato, comunque, effettuato in modo erroneo.
In definitiva, sia con riguardo alla posizione del chirurgo che dell’infermiera, si rimarcava che il controllo di cui si discute è mirato a fronteggiare un tipico, ricorrente e grave rischio operatorio: quello di lasciare nel corpo del paziente oggetti estranei. Esso è conseguentemente affidato all’intera equipe, proprio per evitare che la pluralità dei difficili compiti a ciascuno demandati, le imprevedibili contingenze di un’attività intrinsecamente complessa come quella chirurgica, la stanchezza o la trascuratezza dei singoli, o altre circostanze possano comunque condurre ad un errore che ha conseguenze sempre gravi. Si richiede, dunque, l’attivo coinvolgimento di tutti i soggetti che intervengono nell’atto operatorio: essi devono attivamente partecipare alla verifica. In conseguenza, non è prevista né sarebbe giustificabile razionalmente la delega delle proprie incombenze agli altri operatori.