Nell’esercizio della propria professione, uno psicologo può assistere pazienti che sono stati, o che sono tutt’ora, vittime di reato o autori materiali di reato. In tali situazioni, il terapeuta è chiamato ed effettuare un bilanciamento tra due differenti principi, tra loro contrapposti: il segreto professionale e l’obbligo di denuncia.

La situazione è complessa poiché esistono prescrizioni tra loro antitetiche.

Le norme sono contenute nel Codice Deontologico degli Psicologi e nella normativa penale del nostro ordinamento.  Il fine è quello di assicurare adeguata tutela a valori e beni giuridici parimenti importanti:

  • le regole deontologiche sono poste a tutela della riservatezza del paziente e del rapporto fiduciario instaurato con il terapeuta;
  • le leggi dello Stato a salvaguardia dei diritti della collettività per reprimere i reati, anche attraverso la collaborazione dei singoli cittadini, chiamati a segnalare comportamenti antigiuridici appresi nello svolgimento delle proprie professioni.

Per comprendere l’esito del bilanciamento tra questi due oneri contrapposti, occorre preliminarmente analizzare il contenuto di ciascuno di essi.

 

Il segreto professionale dello psicologo

Col termine segreto professionale si intende la custodia, da parte del terapeuta, di tutto ciò che quest’ultimo viene a conoscenza dal proprio paziente.

Oggetto del segreto non sono solo fatti inerenti la psiche di quest’ultimo, bensì qualsiasi notizia conosciuta dal professionista riguardante

  • l’assistito;
  • i congiunti di quest’ultimo;
  • i conviventi;
  • i familiari;
  • gli amici;
  • i colleghi.

Nel Codice Deontologico degli Psicologi Italiani vi sono diversi articoli che trattano specificatamente questo tema, cristallizzando il contenuto della norma di comportamento in esame.

Articolo 11 Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie, fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le prestazioni professionali effettuate o programmate, a meno che non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti.

Articolo 12 (la regola generale) Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale.

Articolo 12 (la deroga) Lo psicologo può derogare all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione. Valuta, comunque, l’opportunità di fare uso di tale consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello stesso.

Articolo 13 Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo limita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del soggetto.

Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi.

Gli articoli 11 e 12 del Codice Deontologico degli Psicologi costituiscono quindi il punto di partenza da cui muovere ogni valutazione su questo tema.

Il terapeuta deve infatti astenersi dal rivelare informazioni apprese in ragione della propria attività professionale, anche nel caso in cui venisse chiamato a rendere testimonianza dinanzi all’Autorità Giudiziaria. Solo l’espresso consenso del paziente scioglierà il professionista dal vincolo di preservare il segreto.

Le disposizioni richiamate dagli articoli 11 e 12, in realtà, non presentano alcuna difficoltà interpretativa e consentirebbero al singolo psicologo di poter gestire ogni situazione che si dovesse presentare nell’esercizio della propria attività, senza necessità di interpellare un legale esperto in materia.

Diversamente, è la disciplina prevista dall’articolo successivo (art. 13 Cod. Deontologico) a rendere meno lineare l’interpretazione, introducendo concetti giuridici propri del diritto penale e, soprattutto, demandando alla discrezionalità del terapeuta, in alcuni casi, la possibilità di derogare totalmente o parzialmente alla propria riservatezza.

L’articolo 13 richiama infatti gli obblighi di denuncia e di referto, senza tuttavia fornire alcun chiarimento in merito agli stessi.

Si tratta di istituti propri del diritto penale che devono necessariamente essere conosciuti e, ovviamente, compresi dallo psicologo, per consentirgli di ponderare correttamente le diverse situazioni che potrebbero palesarsi nel corso delle sedute.

 

Obbligo di denuncia

Il dovere di riferire all’Autorità Giudiziaria è previsto dall’articolo 331 del codice di rito: “salvo quanto stabilito dall’articolo 347, i pubblici ufficiali [c.p. 357] e gli incaricati di un pubblico servizio [c.p. 358] che, nell’esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche quando non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito […]”.

Le sanzioni, in caso di violazione dell’obbligo, sono invece contenute negli articoli 361 e 362 del codice penale.

Queste disposizioni, però, sono indirizzate a soggetti specifici (pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio) ed hanno ad oggetto solamente i reati procedibili d’ufficio, non quelli perseguibili a querela di parte.

Pertanto, il professionista dovrà essere in grado di comprendere la qualifica e distinguere la procedibilità di un reato d’ufficio o a querela di parte.

Conoscere queste singole figure giuridiche serve per poter valutare se, ed in quali circostanze, uno psicologo è vincolato all’obbligo di denuncia nei confronti del proprio paziente, a discapito della tutela del segreto professionale.

 

Psicologo: pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio?

La definizione di pubblico ufficiale è contenuta nell’articolo 357 del codice penale.

Si tratta di quei soggetti che, all’interno del nostro ordinamento, esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Le persone incaricate di pubblico servizio sono indicate dall’articolo 358 c.p. .

Sono coloro i quali, a qualsiasi titolo, prestano un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, con esclusione dello svolgimento delle semplici mansioni di ordine o della prestazione di opera meramente materiale.

 

Reati procedibili a querela di parte o di ufficio

I reati procedibili a querela di parte sono quelli rispetto ai quali lo Stato si attiva solamente in presenza di un’espressa manifestazione di volontà da parte della vittima (querela), volta ad ottenere la sanzione di colui che ha posto in essere la condotta illecita. Solitamente, rientrano in questa categoria i delitti di minor gravità, tali da destare un “contenuto” allarme sociale.

I reati perseguibili d’ufficio sono invece quelli che prevedono una risposta punitiva da parte dell’Autorità competente a prescindere dalla manifestazione di volontà della vittima. Si tratta quasi sempre di fattispecie aventi ad oggetto condotte materiali particolarmente gravi.

Il tema della procedibilità di un reato è solo apparentemente privo di problematiche.

Esistono infatti numerose fattispecie illecite che, pur richiedendo tassativamente la querela nella loro ipotesi di base, diventando automaticamente perseguibili d’ufficio in presenza di una o più circostanze aggravanti. Ad esempio lo psicologo è chiamato spesso ad affrontare due ipotesi di reato: le lesioni personali (art. 582 c.p.) e la violenza sessuale (art. 609 bis c.p.).

Il professionista dovrà necessariamente focalizzare la propria attenzione anche su tutti quegli ulteriori elementi che fungono da corollario rispetto all’evento. In questo modo il terapeuta avrà la possibilità di agire nel rispetto della legge, dopo aver ravvisato la sussistenza di una delle circostanze tassativamente previste dalla legge.

La distinzione tra circostanze aggravanti che modificano la procedibilità e circostanze aggravanti che invece non escludono in alcun modo la proposizione di una querela non è semplice.

Comprese queste fondamentali distinzioni, è ora possibile concentrare l’attenzione sulla figura dello psicologo.

 

In quali casi lo psicologo deve tutelare il segreto professionale?

Per rispondere a questo interrogativo è necessario muovere il ragionamento dal tipo di attività svolta dal terapeuta, risultando risolutiva la distinzione tra privato e pubblico.

Lo psicologo potrebbe, infatti, esercitare in qualità di libero professionista o come pubblico ufficiale / incaricato di pubblico servizio. Solamente in quest’ultimo caso dovrà sottostare all’obbligo previsto dall’articolo 331 c.p.p.

 

Lo psicologo Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio

Lo psicologo è alle dipendenze del Servizio Sanitario Italiano o lavora anche in convenzione con questo, piuttosto che presso un Ente Pubblico o, ancora, svolge la propria attività in convenzione con Enti Pubblici (AUSL, scuole pubbliche, comuni, ecc…) o riveste la carica di Consigliere dell’Ordine.

 

La qualifica di libero professionista per lo psicologo

Il soggetto svolge la propria attività all’interno di strutture o studi privati, anche in qualità di dipendente (c.d. attività extramoenia). È qualificato come libero professionista anche il terapeuta che, pur utilizzando le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale, eroga le proprie prestazioni al di fuori del normale orario di lavoro (c.d. attività intramoenia).

In relazione allo psicologo che esercita come libero professionista, è tuttavia necessaria un’ulteriore precisazione. Egli, al pari di tutti i cittadini sarà infatti obbligato a denunciare eventuali reati commessi contro la personalità dello Stato, per i quali è prevista la pena dell’ergastolo (art. 364 c.p.).

Si tratta tuttavia di ipotesi poco frequenti, aventi ad oggetto delitti particolarmente gravi, tassativamente indicati nel codice penale, che difficilmente potranno essere collegati all’attività professionale svolta dal terapeuta.

Alla luce degli elementi analizzati fino a questo punto, è quindi possibile evidenziare la preminenza dell’obbligo di denuncia rispetto alla tutela dal segreto professionale, allorché lo psicologo: 

Libero professionista – abbia avuto conoscenza di:

  • un reato contro la personalità dello Stato;
  • per il quale la legge italiana prevede la pena dell’ergastolo. 

Pubblico ufficiale / incaricato di pubblico servizio – abbia avuto conoscenza di:

  • un reato procedibile d’ufficio nell’esercizio delle proprie funzioni;
  • un reato procedibile d’ufficio, non durante le ore dedicate alla propria attività istituzionale (pubblica) ma a causa di questa, cioè, anche al di fuori dell’orario di servizio, nel caso in cui la persona stia riferendo il fatto perché a conoscenza della funzione pubblica ricoperta dal terapeuta.

In ogni caso lo psicologo dovrà limitare allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, per la tutela psicologica del soggetto (art. 13 Cod. Deontologico).

 

Obbligo di referto

Ulteriore argomento che merita di essere affrontato in questa sede è la previsione dell’articolo 365 del codice penale. La norma introduce l’istituto giuridico del “referto”.

E’ una comunicazione scritta obbligatoria, indirizzata all’Autorità Giudiziaria, da parte di un soggetto che, nell’esercizio di una professione sanitaria, sia venuto a conoscenza un delitto procedibile d’ufficio.

È tuttavia consentito derogare all’onere di “segnalazione”, nel momento in cui questo potrebbe esporre l’assistito al rischio di un procedimento penale (art. 365 co. II c.p.).

Qualora il professionista sanitario sia un pubblico ufficiale / incaricato di pubblico servizio, la sua segnalazione verrà definita “rapporto” ed egli non potrà in alcun caso esimersi dall’effettuare la denuncia.

Le qualifiche di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio risultano, infatti, preminenti rispetto a quella di professionista sanitario.

Per quanto attiene gli oneri di denuncia che caratterizzano i professionisti sanitari, gli stessi possono essere quindi riassunti come segue:

  • nessun obbligo di denuncia sussiste in relazione a reati procedibili a querela di parte, sia per il pubblico ufficiale/ incaricato di pubblico sia per il libero professionista;
  • in caso di reato perseguibile d’ufficio, il libero professionista è tenuto a darne comunicazione all’Autorità Giudiziaria redigendo un referto;
  • il referto non è tuttavia obbligatorio:
    • se espone il paziente al rischio di un procedimento penale;
    • se espone il libero professionista ad un possibile danno nel fisico, nella libertà o nell’onore della propria persona o di quella di un proprio congiunto.

 

Lo psicologo e le professioni sanitarie

L’articolo 365 c.p. ha però introdotto un nuovo elemento, in grado di influenzare il bilanciamento tra obbligo di denuncia e tutela del segreto professionale.

Occorre quindi comprendere se quella dello psicologo sia una professione sanitaria. L’interrogativo è sicuramente fondamentale: una risposta affermativa amplierebbe il ventaglio dei possibili scenari che il terapeuta potrebbe dover gestire nello svolgimento del proprio lavoro.

Tuttavia, si tratta di un quesito che presenta non poche problematiche, dal momento in cui negli anni la disciplina ha subito molti cambiamenti.

È necessario effettuare un’operazione di analisi interpretativa tra differenti fonti del diritto, per addivenire ad una conclusione.

Il “Testo Unico delle Leggi Sanitarie”, redatto nel 1934 e tutt’ora in vigore, contiene un elenco dettagliato delle professioni che possono essere qualificate come “sanitarie”.

 

Lo psicologo ed il Testo Unico delle Leggi Sanitarie

Invero l’articolo 99 T.U.LL.SS., recante detto elenco, non menziona nella sua versione originale la figura dello psicologo “tout court”, così come quelle più “specialistiche” dello psicoterapeuta o dello psicologo clinico, apparentemente escludendole dalla previsione ex art. 365 c.p.

Nel corso degli anni, tanto la legislazione nazionale, quanto la dottrina e la giurisprudenza, hanno tuttavia effettuato un’interpretazione estensiva delle c.d. professioni sanitarie.

Dal 2018, lo psicologo rientra nella categoria delle professioni sanitarie. Tale qualifica concerne non solo all’attività specificatamente “psicoterapeutica” ma anche tutte le altre attività “cliniche” (psicodiagnostiche, di supporto o sostegno psicologico, riabilitative ecc.), rivolte direttamente alla “persona”.

Per tale motivo la facoltà di derogare all’obbligo di denuncia, privilegiando la tutela del proprio paziente come previsto dal secondo comma dell’articolo 365 c.p., potrebbe trovare applicazione anche nei confronti dello psicologo.

Condizione imprescindibile affinché ciò accada è la sussistenza, in capo all’attività svolta dal professionista, di tutti gli ulteriori elementi espositi in narrativa.

La complessità della materia è innegabile. L’accavallamento di differenti istituti giuridici, spesso richiamati all’interno di singole norme senza che venga fornita una spiegazione adeguata sul loro significato, impone al terapeuta di condurre una scrupolosa valutazione, finalizzata a comprendere gli obblighi di legge cui deve sottostare. Un onere gravoso per il professionista, già impegnato a svolgere un lavoro certamente delicato, che vede quale condizione imprescindibile la costruzione di un solido rapporto fiduciario col proprio paziente.

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