Cass. pen., Sez. V, 11 marzo 2014, n. 11804
Una Corte di Appello confermava la pronuncia di primo grado, con la quale un medico era stato condannato a pena di giustizia poiché riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 17 L. n. 194/1978 (“chiunque cagiona ad una donna per colpa l’interruzione della gravidanza è punito con la reclusione da tre mesi a due anni”) in quanto, quale ginecologo di fiducia della gestante, per colpa, consistita in imprudenza, negligenza e imperizia, aveva cagionato l’aborto del feto della medesima, evento verificatosi il 20 settembre.
Secondo i giudici di merito, l’imputato non aveva per tempo individuato lo stato ipossico cronico del feto, pur documentato dai tracciati CGT eseguiti fin dal giorno 8 settembre: gli accertamenti strumentali, infatti, evidenziavano una sofferenza fetale.
Nonostante ciò, il ginecologo ometteva di intervenire tempestivamente, e quindi non operava, né disponeva, nei tempi necessari, parto cesareo elettivo e cagionava, in tal modo, la morte intrauterina del feto, morte sopravvenuta per insufficienza placentare acuta e conseguente anossia intrauterina.
Ricorreva per cassazione il difensore.
La Corte Suprema valorizza il dictum dell’esecutore della flussimetria, il quale aveva definito borderline la situazione della gestante e aveva consigliato ulteriori controlli del benessere fetale, controlli che peraltro, secondo la sua specifica indicazione, dovevano essere “strettamente ravvicinati”. Veniva eseguito – si sottolinea – un tracciato CGT dall’esito, anche esso, poco rassicurante.
Sulla base di tali obiettivi dati e delle considerazioni formulate dai consulenti, i giudici pervengono alla conclusione che il medico avesse tutti gli elementi per riconoscere lo stato di sofferenza del feto e per assumere tutte le iniziative del caso, non esclusa l’anticipazione del parto cesareo, già programmato per il 21 settembre.
Quanto alla sussistenza del nesso causale fra la condotta omissiva e l’evento morte del feto, le sentenze evidenziano (sulla base delle consulenze tecniche) il fatto che, se la ginecologa avesse per tempo intuito la gravità delle condizioni e avesse, conseguentemente, anticipato l’intervento di parto cesareo, il feto sarebbe nato vivo.
Quanto, infine, alla portata restrittiva della L. n. 189/2012 (“l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”), essa non esplica – ad avviso della Cassazione – alcun effetto nel caso in esame: la predetta legge “esclude la rilevanza della colpa lieve con riferimento a quelle condotte che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica”.
Ma certamente, si conclude, non può considerarsi corretta o virtuosa una condotta che non abbia tenuto in nessun conto gli allarmanti segnali di pericolo che, anche in seguito ad accertamenti strumentali, si andavano addensando sul capo della gestante, segnali che il ginecologo ignorò o comunque non percepì nella loro effettiva gravità, tanto che, anche in data 20 settembre, lo stesso non rappresentò nemmeno alla diretta interessata l’assoluta urgenza del suo ricovero e del conseguente intervento.
La sentenza ha posto in rilievo, pertanto, che l’imputato non rispettò affatto le elementari linee guida della professione, atteso che il caso concreto non presentava alcuna peculiarità, ma evidenziava semplicemente una riconoscibile situazione di pericolo di una gravidanza a rischio.
In conclusione, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione; ha rigettato invece il ricorso agli effetti civili.