Dall’ analisi dei sinistri relativi all’anno 2016 e primo semestre 2017 emerge che l’80% dei casi coinvolge un dipendente pubblico mentre la rimanente parte concerne i liberi professionisti.
Quanto ai dipendenti pubblici, la metà dei sinistri deriva da un procedimento penale per decesso o lesioni personali mentre, per i liberi professionisti solo il 15% dei casi riguarda un procedimento penale.
Per quanto riguarda i casi oggetto di sinistro, in generale un terzo concerne dei decessi mentre per i restanti due terzi si tratta di lesioni personali. A questi si aggiungono alcuni casi relativi alla violazione delle norme sulla privacy: nel caso comunicazione di esito diagnostico realizzato in modo inopportuno.
Molti dei decessi contestati derivano ancora dalle cadute dei pazienti ma a questi si aggiungono anche casi di responsabilità di équipe connesse ad intervento chirurgico ed omissioni realizzate nel corso della degenza di paziente determinandone la morte.
Anche con riferimento alle lesioni personali, sono ancora presenti casi di cadute del paziente ai quali si accompagnano ipotesi di richieste di risarcimento relative a svariati tipi di danno (individuali o in équipe) quali, ad esempio, travaso di farmaco nel corso della somministrazione, prelievo ematico che determina il sorgere di ematomi, ancoraggio della dentiera nel corso di una gastroscopia, traumi conseguenti a tampone vaginale, perforazione del colon nel corso di una endoscopia e errata valutazione del paziente nella attività di triage.
Sotto quest’ultimo profilo, risulta interessante riportare quanto affermato dalla Cassazione Penale (Sez.IV, n.ro 11601 del 2015), in cui si afferma la responsabilità dell’infermiere del pronto soccorso addetto al triage. In particolare, la Cassazione afferma che “Risponde di omicidio colposo l’infermiere del pronto soccorso addetto al triage (iniziale valutazione e attribuzione del codice e alla progressione numerica degli accessi alle cure) che pone in essere una condotta omissiva riguardo al monitoraggio delle variazioni delle condizioni del paziente, previsto dai protocolli di triage”.
Nel merito. Il Tribunale di Milano dichiarava due infermieri – entrambi infermieri addetti al triage presso il pronto soccorso di una Clinica della città – responsabili del reato di omicidio colposo in danno di un paziente deceduto per sindrome coronarica acuta. Il Tribunale disponeva, altresì, il risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, alle quali attribuiva una somma a titolo di provvisionale. All’infermiera era addebitato di aver assegnato al paziente un codice verde nonostante lamentasse dolore toracico atipico, di aver omesso di monitorare le variazioni delle condizioni del paziente ogni 30-60 minuti e di non avere segnalato all’infermiere che la sostituiva, al momento del passaggio di consegne, la presenza di un paziente con dolore toracico in sala di attesa. Al secondo imputato era addebitato di non aver ripetuto il monitoraggio del paziente in sala di attesa ogni 30 – 60 minuti. In fatto era accaduto che il paziente, senza precedenti clinici di rilievo, era stato accettato presso il Pronto Soccorso alle 18.43 con algia sternale. Sottoposto al triage (iniziale valutazione) da parte del personale infermieristico, gli veniva assegnato il codice verde ed era inviato in sala d’attesa, dove, seduto sulla sedia da circa sei ore, alle 00.30 si era accasciato improvvisamente per arresto cardiaco. Sottoposto ad angioplastica coronarica, era deceduto a seguito di progressive complicanze.
Sotto il profilo giuridico, la sentenza impugnata avanti alla Cassazione risultava, altresì, censurabile quanto alle conclusioni cui giungeva con riferimento all’inesigibilità della condotta degli infermieri. La Corte territoriale, infatti, aveva desunto l’impossibilità di rivalutazione della situazione del paziente, pur prevista dal protocollo ospedaliero, dalla esiguità del personale in servizio quel giorno, a fronte della situazione eccezionale, per il numero di persone giunte in pronto soccorso “tale da rendere effettivamente impossibile la rivalutazione di qualsiasi delle persone presenti“. Il suddetto giudizio veniva fondato sulla prova documentale “rappresentata dall’elenco delle valutazioni di triage succedutesi senza soluzione di continuità, tra le quali casi di coma e infarti conclamati”. E ciò pur essendo messo in evidenza dalla sentenza di primo grado, che aveva proceduto all’analisi degli ingressi dei pazienti risultanti documentalmente, che “nè il prospetto riepilogativo o le cartelle, anche con riferimento ai pazienti presi in consegna alle ore 20.00, è indicativo di situazioni di tale gravità per numero e urgenza da aver ostacolato la normale routine del pronto soccorso” e che, specificamente, risultava che la paziente in coma era entrata in pronto soccorso solo alle 23.21, talché una situazione di emergenza sarebbe al più prospettabile con riferimento alla situazione temporalmente connessa al turno di lavoro del secondo infermiere.
Sul punto la sentenza afferma: “Va rilevato, inoltre, che l’affermazione dell’esonero da responsabilità per omessa attuazione di una condotta doverosa ai fini della salvaguardia della vita umana avrebbe richiesto una compiuta analisi riguardo alla presenza di medici e infermieri in rapporto all’affluenza delle presenze in pronto soccorso, considerando non solo il personale ivi addetto, ma anche le disponibilità delle forze presenti nell’intero ospedale. Ed invero deve ritenersi che spetti al personale pronto soccorso allertare il personale dei reparti ove si verifichino situazioni di emergenza tali da determinare la compromissione grave della salute dei cittadini bisognosi di cure di primo intervento, circostanza che in base alla compiuta valutazione delle risultanze probatorie non risulta emergere nella specie”.
Sempre sul tema, occorre altresì ricordare quanto affermato in sede civile dalla Corte di Cassazione secondo cui: “Risponde ai fini civilistici anche la struttura sanitaria privata per la condotta omissiva colposa dell’infermiere che attribuisce un codice sbagliato ad un paziente in seguito deceduto” (Corte Cass., Sez. III sentenza del 30 maggio 2017, n. 26922). In tema di accertamento del rapporto di causalità di cui all’art.40 del codice penale la giurisprudenza di legittimità da tempo ha affermato che nel reato colposo omissivo improprio detto rapporto non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (Corte Cass, S.U., 10.07.2002, n.30328).
Nella verifica dell’imputazione causale dell’evento occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sebbene riferito al passato: il giudice si deve interrogare su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. Con riferimento alla condotta omissiva, la medesima giurisprudenza ha enunciato il carattere condizionalistico della causalità omissiva, indicando il principio secondo il quale il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata probabilità logica.
Nel reato omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (Cass. pen., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 26491).
Nella fattispecie i giudici della Corte Suprema osservano che l’erronea classificazione delle condizioni del paziente ritenuto da codice verde era stato frutto della condotta omissiva imperita e negligente tenuta dall’infermiere che trascurava del tutto di apprezzare le condizioni del paziente, sia all’arrivo in pronto soccorso sia successivamente nella doverosa rivalutazione che si imponeva, in ragione della sintomatologia lamentata e rapportata all’età.