La Corte di Appello confermava la sentenza del G.u.p. del Tribunale, con la quale T.S. era stato condannato alla pena di mesi quattro di reclusione, con le attenuanti generiche e la diminuente per il rito abbreviato, per il delitto di cui all’art. 610 c.p. (violenza privata), e art. 61 c.p., nn. 5) e 9), perché, nella sua veste di infermiere professionale in servizio presso l’Ospedale, costringeva M.R. a subire l’applicazione di un catetere vescicale, pur a fronte del rifiuto opposto da quest’ultimo, colpendolo dapprima alle mani con degli schiaffi e costringendolo con la forza e, quindi, strattonandolo (il tutto urlando all’indirizzo del paziente con fare minaccioso e bestemmiando ripetutamente) e da ultimo, in conseguenza della reazione fisica del M. che si dimenava, lo immobilizzava con delle polsiere, portando a termine il posizionamento del catetere, con le aggravanti di aver commesso il fatto approfittando di circostanze personali (anziana età della persona offesa), tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, con abuso dei poteri e/o violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio svolto, nonché per il delitto di cui agli artt. 582-585 c.p., art. 576 c.p., n. 1), in relazione all’art. 61 c.p., n. 2), e art. 61 c.p., nn. 5) e 9), perché, con la condotta descritta, cagionava a M.R. lesioni personali (nella specie: ematomi alle mani), con le aggravanti di aver commesso il fatto per eseguire il reato sopraddetto, approfittando di circostanze personali (anziana età della persona offesa), tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, con abuso dei poteri e/o violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio svolto.
Elementi centrali nella vicenda in esame sono costituiti dal rifiuto espresso dal paziente all’apposizione del catetere da parte dell’infermiere e dalle condizioni di salute in cui si trovava la persona offesa all’atto dell’apposizione del catetere.
I giudici di merito, ad avviso della Corte di Cassazione, hanno fatto corretta applicazione dei principi posti dal nostro ordinamento, in primo luogo dall’art. 32 Cost., comma 2, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge, specificazione del più generale principio posto dall’art. 13 Cost., che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dalla L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 33, che esclude la possibilità d’accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p. (arg. ex Cass., Sez. IV, n. 16375 del 23/01/2008).
Per quanto concerne la scriminante prevista dall’art. 51 c.p., che considera non punibili i fatti preveduti dalla legge come reati, se commessi per adempiere ad un dovere derivante da una norma giuridica – nella specie ricondotto all’obbligo di protezione gravante sul personale infermieristico di un nosocomio – appare dirimente ai fini della non configurabilità di essa il rifiuto manifestato dal paziente al trattamento terapeutico, cedendo il passo il predetto generale dovere di protezione all’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica.
Nel caso di specie, non ricorreva neppure “pericolo grave ed attuale per la vita e la salute” del paziente ex art. 54 c.p. (stato di necessità), atteso che il globo vescicale che avrebbe determinato, secondo l’assunto dell’imputato, la necessità dell’immediata apposizione del catetere, non risulta in alcun modo dimostrato, sulla base delle emergenze della cartella clinica, indicante che prima dell’intervento dell’imputato, la minzione era sempre avvenuta spontaneamente e la diuresi era mantenuta attiva, mediante la somministrazione di diuretici, il che rendeva poco compatibile un’eventuale ritenzione urinaria in vescica, pur in presenza di somministrazione di morfina che può indurre effetti di tal genere.
Il ricorso è stato pertanto respinto, confermandosi così la sentenza di condanna.
Cass. pen., Sez. V, 24 settembre 2015, n. 38914